Le due giornate dedicate al vino e all’incontro tra professionisti del
settore, winelover e produttori si sono ufficialmente concluse.
La partecipazione è stata consistente alla decima edizione di
Avvinando Wine Fest. Una manifestazione nata dalle idee dei tre
soci fondatori Marco Busalacchi, Massimo Borghese e Giuseppe
D’Aguanno, i quali hanno cercato di garantire connessione 2011 ad
oggi.
In continuità con gli anni precedenti i numeri sono stati significativi
anche in quest’ultima edizione. Erano 80 le cantine presenti, 900 le
aziende coinvolte e circa 3.000 i partecipanti tra semplici
enoappassionati e professionisti.
La location è stata la grande rivoluzione di questa decima edizione.
In perfetta simbiosi con quello che oggi il vino significa, il senso
che ne cela. I cantieri culturali alla Zisa sono il cuore pulsante di
una Palermo di periferia, da sempre piegata a degli schemi narrativi
di tipo delinquenziale. Un ex complesso industriale che oggi non è
altro che un vero e proprio polo culturale.
Nata negli anni ’90, all’interno di un ex fabbrica metalmeccanica: la
Ducrot. Ciò che prima era fulcro di una produzione di tipo
industriale oggi diventa una fucina di idee, arte e continua
sperimentazione.
E’ un luogo che esprime al meglio quello che Palermo è: una
contraddizione. Girovagando ci si rende conto di quanto sia un
luogo grezzo, una sorta di work in progress sospeso in eterno, ma
quanto -al tempo stesso- sia vivo culturalmente. Una sintesi
perfetta per poter ospitare i protagonisti di un prodotto vivo e
dinamico come il vino.
Precisamente qui il vino è in grado di parlare ad una generazione
diversa. Si allontana da location pettinate e riesce ad accerchiarsi
di graffiti diventando il simbolo di una contaminazione
necessaria.
Cercando di contrapporsi con il significato letterale della parola
“avvinare” – ovvero garantire una perfetto stato al calice che ospita
il vino, affinché non ci siano sedimenti o impurità- questo evento
non si è limitato ad essere pura degustazione. Ho avuto la
possibilità di ascoltare storie, esperienze, memorie e identità ma
anche paure e prospettive future.
Ho capito quanto il vino siciliano stia cambiando pelle e quanto i
produttori vogliano fare all-in sui vitigni cardine del territorio. Sono
gli autoctoni gli unici che sanno meglio rispondere alle sfide
climatiche attuali.
Il Grillo è stato per me il Re silenzioso di questa manifestazione;
resistente alle alte temperature mantenendo comunque freschezza
anche in annate torride. Racconta la Sicilia come probabilmente
pochi Chardonnay sarebbero in grado di fare.
Ne ho assaggiato diversi, ma due in particolare, mi hanno colpita
per stile ed equilibrio pur nella loro diversità.
Uno tra questi è Il Kheirè, Tenuta Gorghi Tondi, un Grillo Riserva
annata 2023. Siamo in Sicilia sud-occidentale, agro di Mazara del
Vallo (Trapani), in contrada San Nicola, a un’altitudine di 25 m/slm.
Ho cercato di capire cosa volesse dirmi quest’etichetta, per
comprendere il vino ancora prima di assaggiarlo.“Kheirè” significa
benvenuto in greco antico e forse è questa l’essenza. Sentirsi
accolti nel sorso, accompagnati da una sapidità che vibra e ti
riporta al calice. Quanto più vicino al concetto di mineralità che
tanto ci piace leggere. Un gusto armonico e con un finale
persistente. Se la leggerezza e l’armonia del sorso sono in questo
grillo attori primari, nel secondo il protagonista è l’energia. Il Vino
Florio; vino base utilizzato per la produzione del Marsala. Siamo in
Sicilia occidentale ed anche qui il mare è significativamente
presente. La fermentazione tumultuosa in cemento conferisce un
grande carattere, dalla beva ampia, con sentori di zagara e
gelsomino che permangono freschi al palato.
In contrapposizione non solo al palato, ma anche sull’etichetta:
per Gorghi Tondi vediamo dei piccoli cerchi concentrici formare
una sorta di eco visiva. I cerchi in blu altro non sono che i laghi
presenti proprio all’interno della tenuta, invece, l’unico cerchio
dorato, è quello esterno. Ma l’eco di cui prima accennavo non
rappresentano altro che dei sassolini lanciati al lago. La voglia di
narrare attraverso le immagini una tenerezza che mai può perdersi.
Infondo, non si smette mai di essere bambini. E se per
quest’etichetta è richiesto un sforzo di interpretazione per quella
del vino Florio niente potrebbe essere più chiaro di com’è.
Un’etichetta parlante, descrittiva in ogni singolo dettaglio.
Troviamo anche la geografia della maestosa cantina di Marsala,
dove l’influenza del mare e del sale giocano un ruolo cruciale. Nulla
è lasciato al caso, in modo da capire quanto il vino sia vivo e
quanto le condizioni esterne possano inevitabilmente influenzarlo.
La conseguenza di una ricca trama di scelte.
Eppure, da ciò che noto, non tutto sembra andare come dovrebbe.
Tra l’ansia da performance che il vino a volte impone e quella
distanza nella ritualità di gesti fin toppo meccanici, i giovani
sembrano essere un mercato sempre più lontano. Non amano vini
dolci, che tengono debitamente a distanza come se fossero
l’inevitabile retaggio di un’epoca lontana. E’ qui che troviamo il
Marsala, purtroppo simbolo di una nobiltà a cui non ci si sente di
appartenere, quasi come atto politico. Erroneamente considerato
un gusto stucchevole, robusto e pesante. Che sacrilegio. Il Marsala
riesce ad essere versatile, ma richiede cultura e un approccio
onesto a ciò che non si conosce. Servono tempo, narrazione,
stimoli e pazienza. Mi conferma Maria Elena Bello, manager Duca
di Salaparuta e Cantine Florio.
E tra le gemme della Sicilia, presente anche il banco d’assaggio
della DOC Monreale, presieduto da Marcello Malta, giornalista e
sommelier Ais.
Una Doc, mi spiega, molto antica, più di quella del Chianti
Classico. La sua origine è legata indissolubilmente all’Abbazia di
Santa Maria. Il 1182 fu un anno emblematico: con un solenne atto
furono specificati i confini dell’area concessa e le numerose
contrade che figurano coltivate a vite. Questo territorio, con colline
generose e un microclima favorevole possiede una ricchezza
ampelografica unica con varietà chiave come il Catarratto,
Perricone e Syrah. Il Catarratto, in particolare trova qui una delle
sue massime espressioni.
Proprio sul Catarratto una polemica fa da ombra: il suo nome non
ha attrattiva. E’ cacofonico. Sempre più produttori rivendicano
l’utilizzo della parola “Lucido”, ovvero una delle sue varianti. Ci si
avvia verso una sorta di rebranding. Tuttavia da ciò che ho
attentamente ascoltato non sembra essere un rebranding accolto
positivamente dai produttori. Rimangano fermi sul nome classico,
fortemente identitario.
Dal territorio di Monreale a quello delle Langhe, il passaggio è
stato breve e formativo per me che da troppo poco mi destreggio
in questo mondo. Un mosaico di assaggi che merita spazio:
– Borgogno -Langhe Nebbiolo No Name 2021
Un vino senza nome, con un’etichetta di protesta contro la rigidità
della burocrazia, che lo ha retrocesso a Langhe Nebbiolo DOC.
Un rosso rubino con riflessi violacei. Un sorso di grande struttura e
carattere. Sentori di fiori rossi e frutta fresca. Un tannino asciutto
ed armonioso.
– Alpi Retiche Nino Negri – Bianco IGT 2023
Simo nelle Alpi Retiche Valtellinesi, con un Nebbiolo vinificato in
bianco con una pressatura soffice. Un giallo paglierino con una
bella vivacità. Al termine della fermentazione viene mantenuto sulle
fecce per alcuni mesi e questo favorisce un importante una
complessità aromatica. Erbe aromatiche, fiori bianchi e agrumi. Un
sorso succoso.
– Moscato Giallo Goldmuskateller – Cantina Meran
Ci troviamo in Trentino – Alto Adige; giallo paglierino con riflessi
dorati. Al naso rimanda ai sentori di arance e limoni. In bocca è
secco, il palato è pulito grazie alla sua freschezza. Il finale non è
lunghissimo, ma rimanda comunque al sorso.
Avvinando Wine Fest è stato per me un esercizio di ascolto e
prospettiva. Ho compreso quanto il vino possa permettere di
decifrare l’anima di un territorio. Ciò che serve è tempo e pazienza
affinché questo racconto possa essere accessibile a tutti.
Palermo ha dimostrato che nonostante le sue imperanti
contraddizioni può essere in grado di narrarlo.